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Lo stigma associato alle malattie mentali: quando gli insulti o gli epiteti legati ai disturbi psichici fanno parte dei discorsi di odio online

Una persona su otto nel mondo soffre di disturbi mentali. In termini assoluti, si tratta di 970 milioni di persone.

Nel nostro Paese, un italiano su quattro ogni anno ha esperienza di un problema di salute mentale. Disturbi d’ansia e alimentari, bipolarismo, schizofrenia, autolesionismo, psicosi, dipendenza da alcol o droga e quella che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito ‘il male del secolo’, la depressione: patologie in crescita che sembrano trovare terreno fertile nella società contemporanea, sempre più affetta da cambiamenti imprevisti e pressioni sociali. 

Ad ammalarsi sono soprattutto i giovani: tre volte su quattro, i primi sintomi compaiono entro i 24 anni di età. Numeri importanti, alimentati dalla crisi pandemica: solamente gli adolescenti che soffrono di depressione o di ansia sono raddoppiati negli ultimi due anni. Eppure, lo stigma e il giudizio sociale nei confronti delle patologie psichiatriche e di coloro che ne soffrono è ancora radicato nelle collettività, reali e virtuali. ‘Pazzo’, ‘ritardato’, ‘psicopatico’, ‘fatti curare’ o ‘vai da uno psichiatra’ sono solo alcune delle etichette e delle locuzioni che vengono utilizzate quotidianamente, in maniera consapevole ma anche con disarmante superficialità, per rivolgerci a chi ha idee diverse dalle nostre, comportamenti considerati non conformi o semplicemente a chi ci sta antipatico.

Il ricorso alla neurologia e alla psichiatria si rivela così utile per sostanziare il proprio giudizio morale sugli altri in un’allusa superiorità etica e comportamentale. Ma se le parole contano, in un’epoca segnata dal politicamente corretto che, perlopiù legittimamente, impone un’attenzione massima al linguaggio sembra sussistere una falla. Perché se – giustamente – espressioni offensive e denigratorie verso alcune categorie sociali non sono più accettabili, la leggerezza con cui si dà dello psicopatico, del bipolare o del malato di mente è ancora preoccupante perché contribuisce inevitabilmente a perpetuare discriminazioni ed esclusioni. Ecco, quindi, che la battaglia contro lo stigma delle malattie mentali deve passare necessariamente anche dal lessico.

I disturbi mentali in Italia: una panoramica su numeri e caratteristiche

Ansia, antidepressivi e impatto della pandemia. Lo scenario italiano relativo alla salute mentale è tutt’altro che roseo. Il peso dei disturbi psichici continua infatti a risultare preoccupante: un report rilasciato da Istat nel 2018, stimava circa 2,8 milioni di italiani che avevano sofferto di depressione nel corso del 2015. L’indagine ‘Salute mentale: fatti e cifre contro lo stigma’ del 2020, a cura del Ministero della Salute, rileva dati più generali, ma decisamente allarmanti: una persona su quattro ogni anno soffrirebbe di problemi legati alla propria salute mentale. Eppure, secondo i dati rilevati dal Sistema informativo salute mentale (Sism) del Ministero della Salute relativi al 2020, gli utenti con patologie psichiatriche assistiti dai servizi specialistici sono stati 728.338. Sebbene molte persone con sintomi più lievi si rivolgano ai medici di base o al settore privato, si deduce dunque che non tutti i soggetti affetti da un disturbo psicologico scelgono di curarsi, spesso per via dello stigma sociale che associa alla malattia mentale una manifestazione di debolezza o un disagio da combattere da soli. 

Tra i pazienti seguiti dai servizi specialistici, tuttavia, si evince che si tratta in prevalenza di persone di sesso femminile (il 53,6% dei casi), mentre la composizione per età riflette l’invecchiamento della popolazione generale, con un’ampia percentuale di pazienti al di sopra dei 45 anni (69%). I pazienti che sono entrati in contatto per la prima volta nel 2020 con i Dipartimenti di Salute Mentale sono stati 253.164 di cui il 91,8% ha avuto un contatto con i servizi per la prima volta nella vita.

Nell’ambito delle patologie psichiche rientrano però disturbi molto diversi tra loro per caratteristiche e complessità. I tassi relativi ai disturbi schizofrenici, ai disturbi di personalità, ai disturbi da abuso di sostanze e al ritardo mentale risultano maggiori negli uomini rispetto alle donne, mentre una situazione opposta si verifica per i disturbi affettivi, nevrotici e depressivi. Nello specifico, la depressione viene rilevata in utenti di sesso femminile nel doppio dei casi rispetto al sesso maschile (24,2 per 10mila abitanti nei maschi e 40,4 per 10mila abitanti nelle femmine). Per quanto riguarda le prestazioni erogate nel corso del 2020 dai servizi territoriali, il valore totale si aggira intorno alle 8.299.120 unità, con una media di 12,3 prestazioni per paziente.

Una condizione critica, ulteriormente complicata dalla pandemia: l’emergenza sanitaria ha infatti impattato in maniera considerevole su modi di vivere e socialità, con ripercussioni sul benessere psicologico e psichiatrico di milioni di persone. Le misure di distanziamento sociale e di isolamento hanno infatti contribuito ad aumentare manifestazioni di disturbi come ansia, stress o depressione. Ricadute che non hanno risparmiato nemmeno i più giovani. Nel 2021 il peggioramento nelle condizioni di benessere mentale ha riguardato in modo particolare i ragazzi tra i 14 e i 19 anni.

Anche i volumi del mercato farmaceutico rilevati nel Rapporto Salute Mentale 2020 aiutano a comprendere meglio il fenomeno e a coglierne l’ampia portata: la spesa lorda complessiva per gli antidepressivi in regime di assistenza convenzionata è pari a oltre 391 milioni di euro con un numero di confezioni superiore a 37 milioni mentre in distribuzione diretta la spesa è di 1 milione di euro per 496.762 confezioni. Per gli antipsicotici la spesa in regime di assistenza convenzionata ammonta a più di 77 milioni per oltre i 5,9 milioni di confezioni; la distribuzione diretta segna invece una spesa di circa 72 milioni di euro (6,7 milioni di confezioni). Infine, per il litio sono stati spesi circa 3,6 milioni di euro (900.840 confezioni) grazie all’assistenza convenzionata e 55.208 euro (24.349 confezioni) con la distribuzione diretta.

La salute mentale nei discorsi online: l’analisi con KPI6

I media plasmano inevitabilmente la comunicazione dei temi psichiatrici. Le malattie mentali, infatti, sono spesso menzionate – in maniera pertinente ma anche impropria – nei titoli dei giornali, negli articoli, nelle trasmissioni televisive, nei discorsi e nelle conversazioni all’interno dei social network. Tuttavia, a distanza di oltre quarant’anni dalla legge ‘Basaglia’, la 180 del 1978, è ancora imperiosa l’esigenza di una corretta e precisa informazione sul disagio mentale per superare le discriminazioni e favorire l’inclusione delle persone che ne soffrono. Nella maggior parte dei casi, infatti, termini ed espressioni che afferiscono alla sfera della salute mentale sono utilizzati per raccontare senza distinzione episodi di cronaca nera, casi politici, fenomeni economici, ma anche semplicemente per esprimere opinioni e commentare comportamenti o vicende. Spesso i giudizi e i discorsi avvengono senza avere una reale conoscenza dei disturbi menzionati, in molti casi difficili e invalidanti, e senza preoccuparsi delle ripercussioni che le parole possono provocare nella vita dei malati e delle loro famiglie. 

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Negli ultimi anni, però, sebbene alcune patologie siano ancora vittime di uno stigma sociale altissimo, la salute mentale sembra aver assunto una maggior rilevanza nelle vite private e nelle discussioni pubbliche prodotte dalla cultura, dai media e dalla politica. Parlare di benessere mentale o rivolgersi allo psicologo nei momenti di difficoltà sono diventate attività ordinarie per molte persone. Nella società si è così cominciato a discutere di condizione psicologica nei suoi molteplici significati e punti di vista rimasti per tempo nell’ombra: racconti individuali di persone che hanno sperimentato il dolore, attività divulgative di professionisti che spiegano le pratiche quotidiane o battaglie portate avanti da politici e attivisti.

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Per avere una panoramica quantitativa delle conversazioni correlate alla sfera mentale, è stata condotta un’indagine statistica attraverso il software di KPI6 sulla piattaforma Twitter. Il quadro che emerge dai dati è di notevole impatto: dal 30 ottobre al 16 dicembre 2022 le conversazioni contenenti parole o espressioni ascrivibili alla salute mentale o ai disagi psichici sono state 222 mila ed hanno generato 427 mila interazioni, coinvolgendo 94.005 utenti. Non si rileva una particolare differenza di genere dal momento che i contenuti sono stati prodotti da donne nel 51% dei casi e da uomini nel restante 49%. 

L’analisi evidenzia in particolare che l’approccio ai disturbi psichici, a differenza della sensibilità che è andata sviluppandosi intorno ad altre categorie sociali, è ancora oggi caratterizzato da scarsa consapevolezza e molta superficialità. Osservando le parole più utilizzate su Twitter emerge che, nei discorsi online inerenti la salute mentale, espressioni apparentemente innocue e superficiali come ‘è una follia’, ‘cose da pazzi’ o ’ gabbia di matti’ ed epiteti quali ‘pazzo/a’ o ‘matto/a’ pullulano. Simili locuzioni sembrano dunque essersi insediate nel linguaggio comune, reale e virtuale, lontane dall’ambito medico-scientifico in cui erano state concepite.

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Tra i tweet individuati, prevale una sentiment negativa (76%), in cui spiccano sentimenti di tristezza, disapprovazione e rabbia.

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Tuttavia, percentuali considerevoli (24%) associano ai tweet anche ammirazione o gioia. Spesso, infatti, le malattie mentali vengono citate con leggerezza nelle comunicazioni come se fossero banali e innocui aggettivi, e non riferimenti a condizioni cliniche talvolta gravi.

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L’utilizzo degli hashtag evidenzia ulteriormente come tali espressioni facciano ormai parte del vocabolario quotidiano di persone e utenti, e in particolare della categoria dei telespettatori. Per commentare programmi e trasmissioni televisive, infatti, l’utilizzo di locuzioni e insulti legati alla sfera mentale è evidente: gli hashtag maggiormente associabili a tale ambito fanno infatti riferimento al #gfvip (e contestualmente ai relativi hashtag riferiti alle fanbase di specifici concorrenti o coppie di concorrenti, come #donnalisi, #incorvassi, #gintonic, #prelemi, #nikiters), ma anche ad #amici22 o a #xf2022. Si tratta perlopiù di contenuti riconducibili a forme di hate speech che contribuiscono a creare una comunicazione mediatica tossica. E le ripercussioni sono notevoli: menzionare impropriamente la salute mentale o attribuire in maniera abusiva etichette di seri disturbi psicologici contribuisce a banalizzare problematiche già di per sé stigmatizzate. Il ricorso alla psicopatologia sembra così diventato una parte fisiologica e normalizzata dei discorsi che avvengono nell’ecosistema online, i quali rispecchiano forme diffuse e preminenti della dialettica contemporanea.

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Da ‘pazzo’ a ‘psicopatico’: quando la malattia mentale diventa un insulto

Esiste ancora oggi una stretta correlazione tra le patologie mentali e le offese comuni. ‘Pazzo’, ’schizofrenico’, ‘demente’, ‘bipolare’: è sufficiente aprire i social network per trovare una miriade di esempi di utilizzo di forme ingiuriose riferite a disturbi neurologici o psichiatrici. Eppure, in un’epoca in cui molte categorie di insulti e violenze verbali sono censurate per le pressioni sociali dell’opinione pubblica, non sembrano levarsi scudi verso questo tipo di offese ben poco inclusive. 

D’altronde la necessità endemica di offendere e denigrare non si è esaurita, ma sembra essersi semplicemente trasferita su nuove e fragili categorie. E così, l’uso di parole ed espressioni originariamente innocue trasformate in insulti si è spostato e si sta spostando sempre di più sui disturbi mentali. Etichette che identificano e danno un nome a patologie cognitive, psichiche o comportamentali, nate in ambito scientifico con un intento puramente descrittivo rispetto a sintomi e cause, hanno dunque assunto una connotazione offensiva. Perché se è pur vero che lingua non è di per sé faziosa e gli stessi termini possono assumere significati e accezioni molto diverse a seconda dei contesti culturali e linguistici in cui sono pronunciati, è evidente che le parole associate a tali malattie sono utilizzate quasi sempre in senso negativo per offendere ed esternare l’inferiorità altrui, giustificando dunque disprezzo ed emarginazione. 

I termini tecnici di disabilità intellettive e di disturbi psicologici, che possono tra l’altro indicare forme e gradazioni diverse, spesso difficili e lunghe da diagnosticare anche per i professionisti, si sono insinuate nel linguaggio parlato in una duplice condizione di presunzione: in primo luogo si elabora un giudizio sulla base di una diagnosi non competente e poi lo si impiega per denigrare. Ciò si verifica in molti casi nei commenti e nelle critiche riferite a tematiche politiche, di attualità e a varie questioni sociali particolarmente controverse, come avviene negli accesi discorsi intorno all’obbligo vaccinale. E così sui social se un utente esprime opinioni o comportamenti diversi dai propri gli si dà del bipolare e del malato di mente o peggio ancora lo si invita a farsi ricoverare in una struttura psichiatrica o gli si augura un trattamento sanitario obbligatorio. La superficialità di simili comportamenti è però pericolosa in quanto contribuisce alla diffusione dello stigma che accompagna i disturbi psichiatrici, rendendo le persone affette da disabilità mentali vittime di offese e umiliazioni anche quando non sono rivolte direttamente a loro. 

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Il paradosso è che, in alcuni casi, anche il tentativo di criticare comportamenti violenti e di odio finisce per perpetuare discriminazioni in una spirale reiterata di insulti e attacchi.

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La tentazione da parte di utenti non esperti di attribuire etichette e diagnosi neurologiche e psichiatriche facili, immediate, fatte ad occhio finisce così per banalizzare una tematica complessa, minando la fiducia negli specialisti e la sedimentazione di una reale cultura scientifica. Oltre ovviamente a danneggiare le persone affette da complesse condizioni di cui non sono responsabili.

Il fardello dello stigma: l’importanza delle parole nella salute mentale

Le etichette forgiano la realtà e le identità, permettendoci di districarci nella complessità sociale. Tuttavia, alcune definizioni e classificazioni possono contenere giudizi e pregiudizi stigmatizzanti verso singoli individui o, più comunemente, particolari collettività. Nello specifico, le conversazioni sui social network sembrano contribuire alla diffusione di un’immagine densa di preconcetti delle malattie mentali. Le condizioni di vita delle persone che soffrono di disturbi psichici non dipendono infatti solo dalla malattia, ma anche dal suo grado di accettazione sociale e familiare. 

L’indagine algoritmica condotta, sebbene rappresenti un’istantanea di una specifica query indagata su un singolo social (ovvero Twitter) in un determinato periodo di tempo, mostra l’ampia propensione degli utenti ad utilizzare un lessico proprio delle patologie neurologiche, psichiatriche, delle dipendenze o delle disabilità, spesso connotato di valenza negativa in espressioni catalogabili come insulti. 

In una società caratterizzata da una crescente attenzione e sensibilità verso la diversità e il linguaggio, siamo dunque ancora lontani da una reale coscienza del benessere psicologico. Per abbattere lo stigma delle malattie mentali, si rivela pertanto necessario intraprendere una complessa battaglia culturale ed educativa riguardo il nostro modo di esprimerci,  comunicare e di utilizzare le parole con la giusta cognizione di causa. 


Scritto da Cristina Gennari

Fonti