COP-IN o COP-OUT? Le sfide della COP27 e i risultati (dis)attesi
Dal 6 al 20 novembre 2022 si è svolta a Sharm el-Sheikh, in Egitto, la Conferenza sul clima, ossia la ventisettesima edizione della Conference of the Parties (COP27). Le “parti” in questione sono 197 paesi che hanno aderito alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici nel 1992, quando, cioè, è stato riconosciuto per la prima volta il cambiamento climatico come rischio per il genere umano.
In inglese ‘cop-out’ è un termine gergale che significa ‘tirarsi indietro, sottrarsi agli impegni presi’, e il sentimento generale intorno a questo nuovo incontro sul cambiamento climatico sembra ritenere che questo sia l’atteggiamento generale dei partecipanti alla Conferenza.
Now that #COP27 has ended, it is time to assess the accomplishment as the future of life on planet Earth hangs in the balance. pic.twitter.com/1daV45cphl
— Dr. William J. Ripple (@WilliamJRipple) November 21, 2022
Per valutare l’accoglimento della COP27 abbiamo scelto di analizzare le reazioni del pubblico su Twitter, utilizzando il software di KPI6 il cui algoritmo permette di analizzare i tweet relativi a determinati argomenti; nel nostro caso abbiamo preso in considerazione quelli incentrati sugli ultimi giorni della Conferenza e quelli immediatamente successivi.
Già nei giorni in cui la COP27 era in corso, molti commenti erano critici per l’alto numero di lobbisti delle industrie dei combustibili fossili presenti agli eventi in programma, ossia 636, il 25% in più della COP precedente svoltasi a Glasgow, da quanto risulta dai dati raccolti dalle organizzazioni Corporate Accountability, Global Witness e dal Corporate Europe Observatory. Quest’anno l’unico paese che aveva più partecipanti rispetto a questa categoria di lobbisti erano gli Emirati Arabi Uniti.
Proseguendo nell’analisi dei giorni successivi alla fine della COP, i tweet esprimono disapprovazione nei confronti degli esiti della conferenza, come ben visibile dal grafico in basso. Molti osservatori, infatti, lamentano un linguaggio troppo “morbido” nel documento finale, come ad esempio il fatto che si continui dopo anni a parlare ancora di “phase-down”, ovvero dismissione graduale dei combustibili fossili, piuttosto che “phase-out”, eliminazione, come richiesto dalla comunità scientifica.
Analizzando i tweet in lingua inglese e italiana che hanno ricevuto più attenzione da parte degli utenti (likes e condivisioni) abbiamo notato come molti dei commenti positivi appartenessero a politici, mentre tra attivisti e scienziati era prevalente un senso di disappunto e frustrazione. Dall’analisi dei commenti su Twitter risulta, inoltre, che alcune delle reazioni positive sono legate alla partecipazione del neo-eletto presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, e alle sue recenti dichiarazioni su nuovi accordi per la creazione di una “OPEC delle foreste tropicali”, con l’obiettivo di tutelare questo importante bioma.
Abbiamo notato un grande distacco tra la scarsa ambizione del documento finale della COP27 e le indicazioni fornite dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), la principale organizzazione internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici e dei loro impatti. Istituito nel 1988 dalla World Meteorological Organization (WMO) e dallo United Nations Environment Programme (UNEP) per definire una conoscenza chiara e scientifica dello stato attuale dei cambiamenti climatici e dei loro potenziali impatti ambientali e socioeconomici a livello globale.
Infatti, dal sesto rapporto dell’IPCC, pubblicato tra il 2021 e il 2022, emerge che il cambiamento climatico ha un fortissimo impatto sugli ecosistemi a livello mondiale, nonché sulle vite delle persone, e questo vale per tutti i continenti, nessuno escluso.
L’ultima edizione dell’IPCC si è concentrata su tre gruppi di lavoro:
- Working Group I: “The Physical Science Basis”, pubblicato ad agosto 2021;
- Working Group II: “Impacts, Adaptation and Vulnerability” pubblicato a febbraio 2022;
- Working Group III: ”Mitigation of Climate Change”, pubblicato ad aprile 2022.
Dal Working Group II, è stato pubblicato un rapporto che analizza l’impatto di ogni singolo elemento preso in considerazione sugli ecosistemi terrestri, d’acqua dolce e oceanici, ma anche sulle condizioni di vita delle popolazioni e degli animali, come schematizzato nelle seguenti tabelle:
Vediamo ora alcuni punti affrontati durante la COP27 per cercare di capire da dove nasce questo sentimento di sfiducia generale.
Petrolio, gas e Voldemort, coloro che non devono essere nominati
Nel “Sharm el-Sheikh Implementation Plan”, il documento finale della COP27, viene confermato il proposito di ridurre gradualmente (non eliminare) il carbone che nel 2021 è stato responsabile per il 40% delle emissioni di CO2 secondo i dati raccolti da ourworldindata.org:
Tuttavia, non si registra nessun passo avanti sugli altri combustibili fossili, ovvero petrolio e gas. Per molti commentatori, a partire da scienziati e attivisti, è considerato uno scandalo non nominare gas e petrolio, responsabili nel 2021 rispettivamente del 21% e 32% delle emissioni di CO2. Se si vuole parlare di crisi climatica, è necessario quantomeno nominare questi combustibili.
Infatti, le richieste di eliminare gradualmente tutti i combustibili fossili, non solo il carbone, e di raggiungere il picco delle emissioni globali entro il 2025 sono state osteggiate da molte nazioni esportatrici di petrolio, come riportato dal Guardian.
Quella simpatica cena della COP
Proviamo a fare un azzardato paragone: è come se un gruppo di amici si ritrovi per la ventisettesima volta per decidere dove andare in vacanza e alla fine della serata si sono a malapena accordati per chi paga il conto dei viaggi degli anni scorsi. Ok, è vero che questi amici hanno tutti interessi e storie diversi, ed è comprensibilmente difficile mettersi d’accordo. Ognuno ha problemi sociali ed economici differenti a casa. Infatti, dal punto di vista dei paesi in via di sviluppo, la situazione è quella di dover accettare di andare in gita con persone che hanno fatto spese folli in tutte le vacanze dall’era pre-industriale a oggi senza pagarne il conto.
Nonostante portino pochi risultati e questi non arrivino alla frequenza a cui ne avremmo bisogno, questi appuntamenti annuali sono però uno strumento importante per discutere del cambiamento climatico a livello internazionale. Tuttavia, anche l’attivismo pubblico, le forze di mercato, i programmi di sviluppo e la legislazione a livello locale e nazionale sono tutti luoghi importanti della politica climatica e possono portare cambiamenti significativi.
Mitigazione, ovvero evitare l’ingestibile
Per mitigazione si intendono quelle politiche tese alla diminuzione del riscaldamento globale tramite la riduzione delle sue cause. Ecco, per quanto riguarda la mitigazione, molti osservatori della COP27 considerano il 2022 come un anno perso perché, nonostante nel documento finale si confermi il limite massimo delle temperature medie stabilito durante la COP21, svoltasi a Parigi nel 2015, a 1,5ºC sopra i livelli pre-industriali, non si sono definiti piani e strumenti per rendere realistico questo obiettivo.
Adattamento, ovvero gestire l’inevitabile
Definire obiettivi globali per l’adattamento è molto complesso, considerando che i benefici dell’adattamento maturano localmente, non a livello globale. Come sostiene il climatologo Filippo Giorgi nel libro L’uomo e la farfalla (Franco Angeli, 2018), le politiche di adattamento hanno spesso un carattere locale o regionale, sono diverse per settori socioeconomici e cambiano a seconda del contesto geografico e politico del settore.
Un’importante iniziativa sull’adattamento nel 2022 è arrivata dal Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, che ha svelato i piani dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale per istituire sistemi di allerta precoce nelle aree che ne sono sprovviste. “Dobbiamo investire in egual misura nell’adattamento e nella resilienza. Ciò include le informazioni che ci consentono di anticipare tempeste, ondate di caldo, inondazioni e siccità”, ha affermato Guterres. L’accordo della COP27 ha dichiarato di sostenere pienamente l’iniziativa e ha invitato le organizzazioni per lo sviluppo e le istituzioni finanziarie internazionali a contribuire nello sforzo.
Questi due aspetti di mitigazione e adattamento sono trattati in maniera separata anche dall’IPCC che dedica un gruppo di lavoro ciascuno, ma un piccolo-grande concetto le tiene insieme: più si ritardano le misure di mitigazione, maggiori saranno i costi – ecologici, economici e sociali – dell’adattamento.
Infatti a temperature di stabilizzazione più elevate, cioè se andiamo oltre 1,5ºC sopra i livelli pre-industriali, corrispondono costi più alti di adattamento.
Un clima lunatico
I cambiamenti climatici non influiscono solo sugli aspetti ecologici: se l’ambiente è devastato dall’azione umana e la media delle temperature globali rischia di superare il sopracitato limite di 1,5°C, le conseguenze dei cambiamenti climatici sono riscontrabili anche sulle vite delle persone. Sempre più di frequente, fenomeni come inondazioni, siccità, deforestazione e desertificazione colpiscono i paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici.
La recente alluvione che martedì scorso ha colpito Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, con fortissime piogge, ha causato almeno 140 morti e centinaia di sfollati.
Negli scorsi mesi, inoltre, abbiamo assistito ad altre alluvioni in giro per il mondo: nemmeno l’Italia si è salvata, ma siamo tutti rimasti alquanto scioccati dalle inondazioni che hanno colpito il Pakistan, facendo più di mille morti e milioni di abitanti senza più una casa. La stagione dei monsoni, cominciata a giugno di quest’anno, ha portato nei mesi successivi massicce piogge e inondazioni che hanno sommerso un terzo del territorio pachistano. Secondo quanto confermato dal Ministro degli Esteri Bilawal Bhutto-Zardari alla BBC, un terzo dei morti erano bambini. Una vera catastrofe.
Dall’altra parte della sponda del Mar Arabico, invece, si presenta una situazione diversa: da molti anni in Yemen vi è una drastica siccità che rende difficoltoso trovare acqua potabile per la popolazione. Ciò è reso ancora più ostico dalla guerra in corso con l’Arabia Saudita. Quasi sempre la responsabilità di trovare acqua potabile incombe sulle donne e sui bambini. Alcuni bambini, infatti, sono obbligati a lasciare la scuola per dedicarsi a questo compito: trasportare acqua dalle cisterne, spesso lontane da casa, con l’ausilio di bidoni di plastica.
Quel volto umano spesso snobbato
Il cambiamento climatico ha un volto umano che non deve essere dimenticato, perfettamente sintetizzato dalla frase della World Bank: “Nascosto dietro questi eventi meteorologici estremi, il cambiamento climatico sta erodendo il capitale umano – la salute, la conoscenza e le competenze di cui le persone hanno bisogno per realizzare il loro pieno potenziale – colpendo più duramente i poveri e i vulnerabili”, ha riportato la World Bank.
Le vittime del cambiamento climatico sono soprattutto loro, i vulnerabili, i bambini, le donne, gli anziani, i poveri, la flora e la fauna. Chi difenderà queste categorie se non lo faranno i politici e i potenti, ossia i decision makers?
Dall’ultimo rapporto dell’IPCC emerge che tra 3,3 e 3,6 miliardi di persone vivono in contesti altamente soggetti al cambiamento climatico. In futuro la vulnerabilità umana si concentrerà soprattutto nelle zone in cui le amministrazioni locali non saranno in grado di garantire tutte le infrastrutture necessarie e i servizi basilari, come per esempio l’igiene, la salute, l’acqua, i trasporti. Secondo tale rapporto, le comunità sociali, e in particolare quelle indigene, sono già state colpite negativamente dal cambiamento climatico e da ciò che questo comporta nell’ecosistema e tra le specie faunistiche e acquatiche.
Scenari quasi distopici
Le conseguenze nefaste sulle colture e sulle foreste comportano la malnutrizione e l’insicurezza alimentare e questo impatta specialmente sulle frange della popolazione più fragili. Attualmente, quasi la metà della popolazione mondiale soffre per la scarsità di acqua almeno un mese all’anno.
Per non parlare dell’eredità culturale tangibile e intangibile, e delle conoscenze secolari su piante e animali che si stanno inesorabilmente perdendo tra le popolazioni indigene.
Un altro fattore importante causato dal cambiamento climatico è la migrazione involontaria indotta dalle condizioni climatiche sfavorevoli e dagli sfollamenti a seguito di cataclismi, aumentando a dismisura la vulnerabilità dei territori insulari.
Un fattore importante di cui spesso non si tiene in considerazione quando si affronta il tema del cambiamento climatico, ma ad esso è legato, è la crescita a dismisura della popolazione mondiale. Abbiamo da poco raggiunto il traguardo di 8 miliardi di persone nel mondo, ora ci dirigiamo verso un altro picco, i 10 miliardi. La crescita della popolazione avrà un effetto molto negativo sulla produzione di CO2 e sul reperimento delle risorse necessarie.
Gli effetti negativi del cambiamento climatico sono molteplici e pochi paragrafi non bastano per un excursus esaustivo.
Paesi vulnerabili 1, Paesi ricchi 0, in attesa del prossimo mondiale
Alla COP27 i rappresentanti del Pakistan hanno insistito fino all’ultimo giorno affinché fosse istituito un fondo per i paesi vulnerabili che più di tutti sono colpiti dalle tragedie naturali causate dal cambiamento climatico. Il 20 novembre è stato istituito il Loss and Damage Fund, definito dal Ministro degli Esteri pakistano un mezzo di “giustizia climatica” e una speranza per l’umanità. Il fondo è stato accolto positivamente dai rappresentanti politici del Pakistan e da alcuni giornalisti ambientali:
Tuttavia, non basta che si sia giunti alla firma di questo storico accordo: secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite sullo Sviluppi Internazionale (UNDP) il Loss and Damage Fund è il riconoscimento delle vaste ineguaglianze della crisi climatica e, perché abbia davvero successo, è necessario che venga strutturato, quantificato e monitorato affinché i paesi soggetti al cambiamento climatico ne traggano benefici concreti.
Economie capitaliste: la base del problema. Anche la base della soluzione?
Le basi della crisi climatica hanno origine nel modello economico attuale: a partire dal consumo dei combustibili fossili come motore per il funzionamento dell’industria, delle infrastrutture e della società in generale, fino alle modalità stesse di sfruttamento non sostenibile delle risorse naturali da parte delle varie tipologie di industria (allevamento, agricoltura, estrazioni, ecc.) che contribuiscono ad aumentare la vulnerabilità degli ecosistemi aggravando gli effetti dei danni dovuti ai cambiamenti climatici.
L’IPCC identifica, nel rapporto “Mitigation of Climate Change”, i fattori di mitigazione che possono essere implementati in qualsiasi ambito industriale: dall’innovazione tecnologica necessaria per una migliore efficienze energetica, all’importanza di sviluppare fonti energetiche alternative a quelle fossili, ai necessari cambiamenti sociali legati ai consumi e agli spostamenti, fino alle esigenze di nuove pianificazioni e strategie urbanistiche.
Fondo verde per il clima: una promessa non mantenuta
Per intraprendere tali strategie sono fondamentali investimenti economici che consentano di portare avanti ricerche di nuove tecnologie e che diano la possibilità di implementare le modifiche strutturali e sociali fondamentali per la transizione verso una società a emissioni zero.
Dal 1992 – data della firma della “Convenzione quadro sui cambiamenti climatici” – a oggi, le decisioni relative a fondi e finanziamenti mirati al cambiamento climatico sono state tre:
- L’istituzione del Fondo Verde per il Clima, formalizzato con l’accordo di Cancun nel 2010. I paesi firmatari dell’accordo si impegnano al versamento di 100 Miliardi di dollari l’anno fino al 2020, e i fondi raccolti devono essere rivolti alla limitazione o riduzione delle emissioni di gas serra nei paesi in via di sviluppo e per aiutare le società vulnerabili ad adattarsi agli inevitabili impatti del cambiamento climatico.
- Riconosciuto che la cifra di 100 miliardi l’anno non è nemmeno lontanamente sufficiente al raggiungimento degli obiettivi previsti nel 2021 a Glasgow, si è deciso di raddoppiare le risorse finanziarie finalizzate al supporto dei processi di adattamento agli effetti del cambiamento climatico.
L’obiettivo dei 100 miliardi di dollari l’anno non è mai stato rispettato dal 2013 al 2020 (ultimi dati disponibili), raggiungendo la cifra più alta di 83,3 miliardi di dollari nel 2020 e il totale più basso di 44,6 miliardi di dollari nel 2015.
- Durante la COP27 è stato poi raggiunto un primo accordo sul fondo Loss and Damage – ovvero dei costi dovuti ai danni derivati dal cambiamento climatico – il cui concetto è stato introdotto per la prima volta a Cancun nel 2010 dal gruppo negoziale Alleanza dei Piccoli Stati Insulari (AOSIS). L’accordo prevede l’istituzione del fondo, ma non ne sono state decise le caratteristiche specifiche quali i meccanismi di funzionamento per la definizione dei contributi e dei beneficiari, e altri dettagli.
Il tempo sta scadendo per mantenere gli impegni presi
Le tempistiche che hanno segnato queste decisioni, pur storiche, sono così lunghe da far temere che i danni del cambiamento climatico avranno effetto alquanto prima e in modo molto più impattante rispetto ai benefici garantiti dai fondi, soprattutto quando si considera che i contributi decisi, e già riconosciuti come insufficienti, non sono mai stati rispettati e non è in vigore alcun sistema di enforcement che ne garantisca il rispetto futuro.
L’IPCC sottolinea che attualmente, pur esistendo una liquidità globale sufficiente, i flussi finanziari sono dalle 3 alle 6 volte inferiori ai livelli necessari per limitare il riscaldamento al di sotto di 1,5°C o 2°C entro il 2030 e gli investimenti sono ancora inferiori nei Paesi in via di sviluppo. I flussi finanziari totali legati a mitigazione e adattamento climatici sono aumentati fino al 60% tra il 2013 e il 2020 ma la crescita media è rallentata dal 2018 e la loro distribuzione è disomogenea.
Inoltre, è molto grave il fatto che i flussi di finanziamento pubblico e privato per i combustibili fossili siano ancora superiori a quelli per l’adattamento e la mitigazione. Dunque, è necessario un coordinamento a livello governativo e sociale che porti a policy e strumenti normativi ed economici che garantiscano in modo concreto il necessario cambiamento sistemico. Senza un rafforzamento delle policy oltre a quanto già in vigore alla fine del 2020 la proiezione è quella di un aumento delle temperature potenziali da 2,2 a 3,5°C entro il 2100.
La lunga strada verso un futuro incerto
Le Conferenze sul clima sono nate dall’esigenza di trovare una soluzione condivisa e urgente ad un problema globale. L’analisi delle problematiche viene dettagliatamente presentata dall’Intergovernmental Panel on Climate Change, che indica anche quali sono le migliori strade (misure di mitigazione ed adattamento) da intraprendere per la vivibilità del pianeta se vogliamo sperare di scongiurare una imminente catastrofe ambientale e umanitaria.
Le COP dovrebbero, pertanto, essere momenti di incontro in cui negoziare le modalità per raggiungere questi obiettivi condivisi e necessari per la sopravvivenza del nostro pianeta e dello stesso genere umano.
Ciononostante, ripercorrendo la storia delle Conferenze sul Clima, il quadro che emerge non è quello di attori che, consci della gravità e dell’urgenza del problema, agiscono di concerto verso un obiettivo comune nel rispetto delle responsabilità individuali. La situazione richiama, piuttosto, un incontro in cui i partecipanti hanno come obiettivo principale la tutela dello status quo dell’economia del proprio paese – economia il cui mantenimento inalterato non è compatibile con la risoluzione del problema del cambiamento climatico – e solo trovando garanzia di questo sono disponibili a trovare anche soluzioni alternative che possano avere effetti positivi sul clima.
Di seguito, si può notare dal grafico che, nonostante in questi anni si siano svolte diverse COP e si sia giunti ad alcuni importanti accordi, le emissioni di CO2 e le temperature medie sono progressivamente cresciute:
L’atteggiamento di mantenere lo status quo sembrerebbe confermato dalle scelte politiche recenti, a nemmeno due settimane dal termine della COP27: l’approvazione dell’apertura di una nuova miniera di carbone nel Regno Unito, la finalizzazione di un accordo per l’importazione di gas dal Qatar da parte della Germania e la riaccensione di un impianto a carbone in Francia. Non stupisce quindi che a distanza di 30 anni dalla firma del primo accordo, il Summit di Rio de Janeiro che ha sancito la nascita delle COP, questo modello di lavoro non abbia ancora ottenuto i risultati sperati da chi esprime preoccupazione per la gravità del cambiamento climatico.
Nonostante non si sia ottenuto tutto quello che ci si aspettava, è però importante ricordare anche i passi avanti a cui si è giunti nel corso di questa ultima Conferenza, a seguito della quale viene in generale accolta positivamente la creazione del fondo Loss and Damage, indicato come un passo verso la giustizia climatica.
La strada da intraprendere forse è ancora lunga, ma la notizia dei progressi della ricerca nel campo delle fonti energetiche, e in questo caso della fusione nucleare come fonte di energia più pulita, economica e illimitata, ci porta qualche speranza, sebbene ci vorranno ancora molti anni e una migliore tecnologia per riuscire a produrla e commercializzarla.
Dal 7 al 19 dicembre 2022, infine, a Montreal si è svolto un altro importante appuntamento, la COP15 sulla diversità biologica, o biodiversità, delle Nazioni Unite e c’è grande speranza per quanto riguarda la protezione delle foreste e il contrasto a pratiche di agricoltura non sostenibile. Lo storico accordo a cui si è giunti a termine dei lavori prevede la protezione del 30% delle terre e delle acque considerate fondamentali per la biodiversità entro il 2030 (oggi si arriva solo al 17% delle terre e al 10% delle aree marine) e lo stanziamento di maggiori fondi da destinare alla protezione degli ambienti e ai paesi più poveri.
In conclusione, se vogliamo salvarci sul il nostro pianeta è importante che gli impegni presi durante le Conferenze sul clima vengano rispettati e che si abbandonino i combustibili fossili per prediligere alternative più sostenibili.
We are living in a house of cards! pic.twitter.com/lxgAw9tRj7
— Dr. William J. Ripple (@WilliamJRipple) December 2, 2022
Scritto da: Laura Panini, Francesco Bagnolini, Saida Hamouyehy
Laureata in Lingue e Letterature straniere e in Relazioni Internazionali a Bologna, ha lavorato a lungo nel sociale come operatrice sociale e mediatrice culturale. Nel 2019 e nel 2021 ha partecipato al concorso letterario di Torino Lingua Madre e i suoi racconti sono pubblicati nelle rispettive antologie. Nel 2022 ha seguito il corso formativo di IFOA in Data Journalism.
Biologo ambientale, ha dapprima conseguito una laurea in Biologia, proseguendo con una magistrale in Ecologia dei cambiamenti globali. Ha approfondito le sue conoscenze nelle specie vegetali arboree in ambiente urbano, servizi ecosistemici, tecniche di monitoraggio ambientale, analisi e visualizzazione dati spaziali.