Un’Analisi del Pubblico delle Olimpiadi: Globalità Autentica o Bolla Social?
Le Olimpiadi, quell’evento che ogni quattro anni viene celebrato come l’apoteosi dell’unità e della fratellanza tra i popoli, sono davvero così globali come ci viene raccontato? O siamo di fronte all’ennesima narrazione mediatica costruita ad arte per sostenere un ideale di globalità che esiste solo nelle fantasie di chi vuole farci credere che il mondo è un villaggio globale? Ecco, per rispondere a queste domande, ci viene in soccorso una recente analisi condotta da Odience sul pubblico delle Olimpiadi, che ha messo sotto la lente d’ingrandimento oltre 45 milioni di utenti attivi su piattaforme social come Instagram, TikTok, Twitter e YouTube.
Odience è una piattaforma avanzata di Consumer Intelligence che sfrutta l’intelligenza artificiale generativa e un sistema di Digital Twins per analizzare le conversazioni online. Questo approccio innovativo consente di raccogliere e interpretare grandi volumi di dati in modo rappresentativo e azionabile, fornendo insight profondi sui comportamenti e le preferenze delle audience globali.
Olimpiadi e Social Media: una globalità a senso unico
La ricerca conferma la portata globale delle Olimpiadi, ma con delle riserve che non possono essere ignorate. E’ interessante notare come l’accesso ai social media sia tutt’altro che uniforme. Chi ha accesso a questi strumenti è davvero rappresentativo dell’intera popolazione mondiale? Evidentemente no. Le piattaforme più popolari, come TikTok e Instagram, sono appannaggio dei giovani (Grafico 1) e delle regioni più urbanizzate (Grafico 2), mentre YouTube e Twitter vantano un pubblico più eterogeneo, ma sempre filtrato da fattori socio-economici non indifferenti.
Il pubblico delle Olimpiadi: chi conta davvero?
Dalla ricerca condotta attraverso Odience, emerge che gli Stati Uniti, l’India e il Brasile sono i paesi che dominano la scena in termini di partecipazione. Fin qui nulla di sorprendente, se non fosse che questa partecipazione è profondamente legata a questioni di accesso alle tecnologie e alle infrastrutture digitali, piuttosto che a un vero e proprio interesse globale per lo sport. In altre parole, le Olimpiadi si fanno sì globali, ma solo per chi può permettersi di partecipare alla festa digitale. E per quanto riguarda la distribuzione demografica? La fascia d’età più coinvolta è quella tra i 18 e i 24 anni, quella che, non a caso, è più esposta al bombardamento di contenuti su TikTok e Instagram. Ma chi sono veramente questi giovani? Sono davvero rappresentativi di una popolazione mondiale diversificata o sono solo il riflesso di un mondo digitale che rispecchia e amplifica le disuguaglianze già esistenti?
Diversità linguistica e etnica: una visione limitata
Dal punto di vista etnico, la maggioranza degli utenti è di origine caucasica (Grafico 3), seguita da ispanici e asiatici. La diversità linguistica è altrettanto limitata, con l’inglese predominante, seguito da spagnolo e portoghese (Grafico 4). Questo dimostra come la globalità delle Olimpiadi sia parziale e fortemente influenzata dalle barriere linguistiche e culturali.
Implicazioni per i brand: marketing o manipolazione?
E qui arriviamo al punto cruciale: cosa significa tutto questo per i brand e il marketing? I risultati dell’analisi sono un vero e proprio vademecum per chi vuole sfruttare le Olimpiadi come palcoscenico per le proprie campagne pubblicitarie. Ma la domanda che dobbiamo porci è un’altra: è giusto continuare a parlare di globalità e inclusività quando, di fatto, queste campagne raggiungono solo una parte del mondo, quella connessa, giovane e prevalentemente caucasica?
Alla fine, le Olimpiadi sono davvero globali? La risposta è più complessa di quanto si voglia far credere. Sono globali per chi ha accesso, per chi può permettersi di farne parte. Ma per molti altri, rimangono un evento distante, l’ennesima celebrazione di un’idea di mondo che esiste solo nelle menti di chi guarda al di là dello schermo di un telefono o di un computer. Quindi, se vogliamo parlare di Olimpiadi come evento globale, facciamolo con la consapevolezza che globalità non significa necessariamente inclusività. E forse è proprio questa la più grande lezione che possiamo trarre da questa analisi.
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